I ruggenti anni 70/80

Posts written by xericos

  1. .
    La Pontiac Grand safari è stata una vettura americana prodotta tra il 1971 e il 1978.
    Prodotta in due serie, era disponibile solo nella versione familiare, di solito impreziosita dai pannelli laterali in finto legno, tipico delle station americane del periodo. Classica la disposizione degli organi meccanici, motore anteriore e trazione posteriore.
    La prima serie era una grossa station, rientrava nella categoria detta full size, venne prodotta dal 1971 al 1976, grazie alle sue misure lo spazio interno era enorme, verrà battuto solo negli anni ’90 da modelli full-size della General Motors. Fu assemblata presso lo stabilimento Pontiac nel Michigan.
    La Pontiac Grand Safari, come le altre familiari contemporanee del gruppo General Motors, possedeva sospensioni posteriori a balestra, e ciò era particolare per l'epoca. Infatti, gli altri modelli full-size General Motors utilizzavano delle molle elicoidali.
    Molto particolare era l’aperura del portellone posteriore, detto clamshell, dove la parte superiore andava a scivolare in un vano ricavato sotto il tetto, mentre quella inferiore scorreva a sua volta (manualmente o elettricamente) in un vano ricavato sotto il pavimento. Il funzionamento, offerto inizialmente come optional diventerà di serie dato il grande sforzo che richiedeva per essere sollevato. L’interruttore elettrico era posto sul cruscotto, ed era ripetuto sui lamierati psoteriori, il sistema se di per sé era complesso, permetteva di facilitare le operazioni di carico e scarico anche in spazi stretti.

    Apertura di tipo clamshell di una Pontiac Catalina Safari Wagon del ‘79
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    Questo sistema comunque sarà eliminato quando la General Motors ridurrà le dimensioni dei propri modelli nel 1977. Questo ridimensionamento sarà dovuto alla crisi energetica del 1973, dovuta alla guerra del Kippur, in cui si cercherà di creare vetture più leggere e con consumi di carburante ridotti.
    La prima serie della Pontiac Grand Safari era basata sulla piattaforma c della General Motors, da cui nacquero altri modelli Buick e Oldsmobile.
    Questa serie di Grand Safari aveva installato due tipi di motori, entrambi V8. Il primo aveva una cilindrata di 6,6 L, mentre il secondo di 7,5 L. Abbinati ad un unico cambio il TH-400 automatico a tre rapporti.

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    Come detto dopo la crisi del Kippur, le vetture della General Motors, furono rimpicciolite e ridotte nelle dimensioni, per cercare di ridurre i consumi di carburante. Anche la Pontiac Grand Safari seconda serie prodotta dal 1976 fino al 1978, sarà più piccola, montando inizialmente un motore 4.9 l, il motore di 6.6 litri era opzionale, nel 1978 verrà offerto come optional anche il motore di 5.7 l.
    La seconda serie della Pontiac Grand safari utilizzava il pianale B della General Motors. Nel 1979 la vettura uscirà di produzione.

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    Curiosità:
    Il grande attore John Wayne, famoso per i suoi film Western, nel 1975 ordinò una Pontiac Grand Safari, che fece poi modificare da George Barris, il famoso preparatore delle auto utilizzate in tanti film, tra cui la più famosa macchina di Batman degli anni ’60.
    La modifica consisteva nell’aumento del tetto per permettergli l’accesso a bordo con la sua icona, il cappello da cow boy, sarà l’ultima auto posseduta dal famoso attore morto a Westwood l’11 giugno 1979.
    La vettura così trasformata è ancora della famiglia Wayne.

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  2. .
    Oggi parliamo di una vettura classica, interessante, un'autovettura di lusso prodotta dalla Jaguar dal 1959 al 1967 solamente in versione berlina, ma non della sua storia, ma di una libera interpretazione di Ian Callum.
    Ian Callum è il noto progettista della casa Inglese, che ha disegnato le ultime vetture di Coventry, come la XK, XF e XJ, e la nuova F-TYPE.
    Alla continua ricerca della perfezione, Ian guida un team di talenti che lavorano quotidianamente per rendere il futuro di Jaguar ancora migliore.
    Da questa grande passione è nata una nuova officina di Classic Motor Cars Limited – CMC, una delle più grandi aziende inglesi specializzate nel restauro di vetture storiche, soprattutto Jaguar.
    Con l'inaugurazione della nuova società, è stato presentato un esemplare speciale della storica MK2, rivisto nello stile e aggiornato nella meccanica per renderlo più moderno e godibile alla guida.
    Ian Callum stesso si dice il processo che ha portato alla nascita del nuovo modello: “La Jaguar MK2 è un’auto stupenda ma ho sempre pensato che potesse essere ancora più interessante nella forma e nelle prestazioni. Partendo dal presupposto di mantenere integra la purezza dell’aspetto di quest’auto, ho voluto aggiungere una serie di nuovi particolari al design. Essenzialità e limpidezza sono stati due temi portanti di questo progetto”.

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    Il risultato è qualcosa di strano, per chi è abituato all’originalità del mezzo, ma se riusciamo a superare lo shock iniziale, troveremo realmente un qualcosa di bello, d’interessante, fatto con una logica e ottenendo un mezzo particolare ma nello stesso tempo affascinate.
    La creazione della Jaguar MK2 ha richiesto ben 18 mesi di lavorazione.
    E' stata presentata al grande pubblico nel 2014 all'evento Londinese di eleganza Salon Privé. La vettura è stata tenuta a battesimo d Norman Devis e dallo storico collaudatore Jaguar John Surtees che per l'occasione è stato testimonial dela CMC.

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    Le modifiche che appaiono subito evidente sono i nuovi paraurti perfettamente integrati nella carrozzeria, e le grandi prese d’ari anteriori con bordi e retinatura cromata.
    Nella fiancata troviamo quattro sfoghi d’aria verticali subito dietro i passaruota anteriori, che gli donano un aspetto più sportivo.
    Il motore è stato sostituito con una nuova unità a 6 cilindri di provenienza XK, portato a 4,3 litri e abbinato a cambio a 5 marce. Profonde modifiche hanno interessato anche la meccanica. Lo sterzo, servoassistito, presenta nuovi elementi strutturali su misura. Le sospensioni sono state aggiornate con nuove molle, nuovi ammortizzatori regolabili e nuove barre antirollio davanti e dietro, i freni posteriori sono stati riposizionati fuori bordo. I tecnici CMC hanno così definito una nuova geometria dell’assetto, che ha migliorato il comportamento dinamico complessivo riducendo, in particolare, l’effetto anti-dive (anti affondamento) all’anteriore.
    Il corpo vettura ora è più vicino al suolo, grazie all’abbassamento di ben 30 mm abbinato a nuove ruote da ben 17”.
    Gli interni sono stati completamente rivisti, nuova selleria in un colore rosso amaranto, un nuovo volante ed un impianto audio con alloggiamenti su misura per le casse e cablaggi altamente professionali.

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    Edited by xericos - 29/1/2016, 08:19
  3. .
    Molto interessante, in effetti è proprio la storia dell'elettronica applicata all'auto, fa sorridere oggi vedere la smeplicità degli schermi, credo che i nostri cellulari siano più potenti, ma all'epoca eravamo proprio agli iizi
  4. .
    Nel 1962 la Boneschi allestì una convertibile su su uno degli chassis Flaminia destinati alla Touring (siglati 824.04) munito dunque del motore 2500 cc da 119 cv. Disegnata da Rodolfo Bonetti, che in quel periodo insegnava design alla Ulm in Germania. Bonetto 33 anni milanese, vinse per ben 6 volte il Compasso d'oro, il più utorevole premio europeo nel campo del design.
    La collaborazione tra Boneschi e Bonetto fu sfortunata, la vettura suscita pareri contrastanti per la sua linea spigolosa, troppo massiccia. La mancanza di ordine fece si che la vettura rimarrà esemplare unico, senza seguito produttivo neppure di modesta entità.
    Era finita l'era delle fuori serie, non più in grado di competere con le vetture prodotto ufficialmente dalle case, in grado di dare assistenza in maniera più veloce e celere.
    La ditta Boneschi si convertirà quindi agli allestimenti di autobus e gli autocarri.

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  5. .
    Che auto particolare, mi piace l'abbinamento di colori. Bene sono contento di vedere sempre più spesso auto provenienti dal Brasile, essendo un po' lontanuccio per lo meno vedo qualche cosa
    Ciao
  6. .
    La Saab 96 è stata una rivisitazione della Saab 93, nasce nel 1960 e sarà prodotta fino al 1980. Grazie a questo modello il marchio comincerà ad essere conosciuto anche a livello internazionale, fu infatti il primo modello Saab ad essere importato nel Regno Unito.
    La linea è molto aerodinamica e, se anche la vettura può ricordare la Saab 93, sua era la base meccanica, la parte posteriore è più ampia, fornendo più spazio, un bagagliaio con apertura più grande e un lunotto con una migliore visibilità posteriore.

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    I motore 2 tempi erano dotati di ruota libera, che permetteva di staccare la trasmissione in determinate situazioni, riducendo il freno motore. Il cambio inizialmente era a 3 marce con la prima non sincronizzata, solo successivamente verrà adottato un 4 marce.
    La vettura adotta sospensioni anteriori indipendenti a molle con barra anti-rollio e barre di torsione, ammortizzatori anteriori telescopici e posteriori a braccio idraulico, freni a tamburo, sterzo a cremagliera e pignone, un serbatoio di 38,6 litri di carburante, pneumatici da 5,60 × 15 con cerchio da 4", freni servo-assistiti.
    Dalla Saab 96 fu creata la Saab 95, la grossa station Saab.
    Anche la Saab 96 è stata costruita presso lo stabilimento di Uusikaupunki in Finlandia

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    Nel 1963 la cilindrata è stata aumentata a 841 cc, 40 cv (30 kw) abbinato sempre ad un cambio a tre marce. Una versione da 57 cv (43 kw) con tre carburatori e miscelatore automatico per l'olio, è stato utilizzato nei modelli Sport e Monte Carlo. La potenza supplementare è stata ottenuta tramite l’uso di una testa-cilindro modificata e diverso albero motore, offrendo maggiore rapporto di compressione complessiva. Nella Saab 96 del 1964 il motore è stato portato a 42 CV (31 kw) abbinato ad un cambio a 4 marce.

    Saab 96
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    Nel 1965 la parte anteriore è allungata permettendo l’inserimento di motori più grandi.
    Inizialmente i primi modelli di Saab 96, adottavano un motore montato longitudinalmente, era un 750 cc da 38 CV a tre cilindri due tempi.

    Saab 96
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    Nel 1966 i modelli, il motore da 841 vede salire i cv a 46 (34 kw) grazie ad un carburatore Solex con gestione del minimo automatico.

    Saab 96
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    Nel 1967 è adottato il motore 4 tempi della Ford Taunus da 1498 cc, con due testate contrapposte (V4) originariamente sviluppato per la Taunus del 1962. Il progetto Saab con questo motore a quattro tempi è stato chiamato 'Operazione Kajsa'. Sono stati testati anche altri motori. Tra il 1962 e il 1964 Kjell Knutsson Ingvar Andersson e Rolf Mellde testarono tre differenti motori, Lloyd Arabella 897 cc e 45 cv, un Morris Mini 848 cc, 33 CV e una Lancia Appia con motore di 1089 cc e 48 CV. Tuttavia il V4 Ford era molto più facile da adattare al vano motore della 96.
    Si narra che i test si svolsero in estrema segretezza, Rolf Mellde prese un periodo di attesa e disse che stava seguendo il negozio di vernici del padre. In realtà si recò a Desenzano, nel nord dell’Italia, con un prototipo 96V4 pronto per il test durarono cinque mesi e solo sette persone erano conoscenza del nuovo motore. Il piano funzionò e il segreto mantenuto fino a quando un giornalista qualche giorno prima della presentazione ufficiale notò un camion carico di 96s che avevano adesivi sui parafanghi anteriori con la scritta V4.

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    I primi motori della Saab 96 V4 avevano 55 cv (48kw), dal 1977 fino a fine produzione i cv divennero 65. La vettura era in grado di fare lo 0-100 km/h in 16 secondi. Il motore 2 tempi fu usato fino a l 1968. Lo stesso motore era ridotto di cilindrate e, portato a 819 per il mercato Americano, al fine di adattarsi alle normative più restrittive sulle emissioni che esentava i motori sotto i 50 cc, mentre il V4 utilizzato nelle auto degli Stati Uniti ha avuto un motore 1700 cc a bassa compressione.

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    La vettura uscirà dalla scena l’11 gennaio del 1980, sostituita dalla Saab 99
  7. .
    Si molte auto hanno adottato i sedili contro marcia nella zona destinata al bagagliaio, sinceramente non oso pensare in caso di tamponamento, senza tenere conto che comunque erano adatti a bambini e non di certo a degli adulti.
    Ciao
  8. .
    Parlare del marchio Saab, ora non è semplice, perché ormai manca da diversi anni sul mercato, un vero peccato se si pensa al potenziale che avevano le sue vetture.
    Oggi ripercorriamo la sua storia parlando della Saab 95, una vettura particolare, una station vagon con 7 posti con il divano posteriore ripiegabile per aumentare il vano di carico, utilizzava un motore due tempi da 841 cc a tre cilindri montato longitudinalmente di 70 × 73 millimetri, compr: 7.3:1, 38hp a 4250 giri/min, 79Nm a 3000 giri/min a due tempi con testa dei cilindri in alluminio e blocco motore in ghisa, albero motore con 4 cuscinetti, carburatore Zenith 34 VNN, termostato, chiave di avviamento senza starter.
    Solo nel 1967 il motore sarà sostituito con un’unità di origine Ford Taunus, con un cambio a 4 marce meccanico, lo stesso motore sarà utilizzato anche nella Saab 96 e Sonett III V4. La Saab 95 rimase in produzione fino al 1978.
    Basata sulla meccanica della Saab 93, la vettura iniziò a essere venduta nel maggio del 1959.
    Costruita presso la fabbrica di Uusikaupunki in Finlandia, fu il più grande veicolo mai prodotto dalla casa Svedese.

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    La vettura adotta sospensioni anteriori indipendenti a molle con barra anti-rollio e barre di torsione, ammortizzatori anteriori telescopici e posteriori a braccio idraulico, freni a tamburo, sterzo a cremagliera e pignone, un serbatoio di 38,6 litri di carburante, pneumatici da 5,60 × 15 con cerchio da 4", freni servo-assistiti.
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    La vettura si presentava come una grande station, con solo due porte, il peso era di 905 kg.
    Nel 1961, per migliorare l’aerodinamicità è installato un piccolo spoiler posteriormente sul tetto.
    Nel 1962 è lanciata la versione furgone della Saab 95, priva dei vetri posteriori.
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    Nel 1963 l’emblema Saab è posto nella griglia anteriore.
    Nel 1965 la vettura è dotata dei fari direzionali, per una migliore visibilità in curva.
    Nel 1966 è creato un veicolo denominato Saab 95 Special, con nuovi copricerchi, nuove finiture di acciaio inox, nuovi fari abbaglianti, nuovi retrovisori esterni e differenti freni a disco, il volante è rivestito di pelle.
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    Nel 1967 è affiancata al motore due tempi il motore di origine Ford Taunus V4, un quattro tempi, 1498 cc quattro cilindri da 55 cv, due testate contrapposte (appunto V4) , originariamente sviluppato per la Ford Taunus del 1962.Il progetto Saab con questo motore a quattro tempi è stato chiamato 'Operazione Kajsa'.
    Nel 1968, è eliminato definitivamente il motore due tempi in favore della nuova unità V4, una nuova guarnizione posteriore che permette l'apertura dei finestrini nel vano bagagli, lava-parabrezza alimentato da una nuova pompa elettrica.
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    Nel 1968 vi sono un differente circuito dei freni, retrovisore posto sulla parte superiore del parabrezza, leva del cambio tra i sedili anteriori.
    Nel 1969, iniziano le importazioni in America, per adattarsi alle normative sono rivisti, per il solo mercato Americano, gli indicatori di direzione che sono spostati in avanti.
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    Nel 1970 abbiamo nuovi interni, un diverso cruscotto illuminato con nuovi indicatori, rivisto il volante e i pulsanti per il riscaldamento e l'illuminazione, adozione delle cinture di sicurezza anche per i posti posteriori, i proiettori si accendono insieme al motore.
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    Nel 1971 sono rivisti i freni, l’impianto di riscaldamento, ora in grado di riscaldare tutta la vettura.
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    Nel 1972, sono diversi i paraurti e i sedili anteriori sono riscaldabili.
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    Nel 1973 cambiano i fari, che ora sono rettangolari, ad eccezione delle Saab importate negli Stati Uniti.
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    Nel 1974 la griglia anteriore in due pezzi è stata sostituita da una in 6 pezzi cromata, il modello è dotato di pneumatici radiali e le cinture di sicurezza sono provviste di arrotolatore.
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    Nel 1975 è presentata una versione più lussuosa, con un nuovo tergicristallo e cerchi in lega.
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    Nel 1976 nuovo paraurti in materiale plastico che permette di assorbire l'energia d'urto provocata da una collisione fino a 8kmh (5 miglia all'ora) e nuove luci diurne, la ruota di scorta viene posizionato nel bagagliaio.
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    Nel 1978 sono integrati gli appoggiatesta nei sedili.
  9. .
    Si mi ricordo la Aro Ischia ed ora che me lo fai notare il volante è molto simile, se non lo stesso.

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  10. .
    La Matra Djet, ad ottobre del 2012, ha compiuto la bellezza di cinquant’anni, purtroppo il marchio Matra è scomparso da tempo, dopo l’acquisizione da parte della Renault. Negli ultimi anni aveva creato la Renault Espace, quella in materiali plastici ovviamente e la strana Renault Avantime.
    Oggi esiste un reparto che si dedica alla costruzioni di veicoli elettrici, che mantiene il nome di Matra Manufacturing & Services (abbreviatoMatra MS), ma della Matra originale ormai non ci sono più tracce, la Renault Djet, fa ancora parte di quell’epoca in cui la Matra faceva strane ma belle auto. Presentata al Salone di Parigi del 1962, la Djet era una vettura molto particolare, sicuramente sportiva, che poteva ricordare nella linea la Renault Alpine.
    Prima di proseguire con la storia di questa vettura dobbiamo fare un passo indietro.
    1961 Renè Bonnet e Charles Deutsch rompono il loro sodalizio, la società che ha creato la EPAF con il suo amico e socio fondatore del marchio DB non esiste più, questa rottura è dovuta ad un accordo che prese lo stesso Bonnet con la Renautl, che incrinò, in maniera irreversibile la società. Bonnet quindi si mette in proprio e crea la Società Automobili René Bonnet.

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    Dopo aver trovato una nuova sede a Romorantin e un partner industriale attraverso la Matra, René Bonnet preparerà la sua nuova sportiva, rivoluzionaria la Djet.
    Nel periodo in cui fonda la nuova attività, conosce Marcel Chassagny, presidente e fondatore della Matra, un'azienda fino a quel momento impegnata nel settore degli armamenti e dell'aeronautica, ma che stava affacciandosi in quel periodo su altri settori industriali, tra cui proprio quello dell'automobile (nei decenni seguenti si sarebbe espansa anche nel campo aerospaziale e delle telecomunicazioni). Chassagny vide in Bonnet un potenziale partner con cui stringere accordi per una partecipazione finalizzata alla costruzione di autovetture.

    Marcel Chassagny
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    All'inizio degli anni sessanta del secolo scorso, la Matra aveva già cominciato ad interessarsi anche alla lavorazione della vetroresina, soprattutto grazie all'acquisizione della Générale Application Plastique (GAP), un'azienda francese specializzata in tali lavorazioni, Bonnet, al corrente di ciò, commissionò alla Matra la realizzazione della carrozzeria per la nuova vettura.
    Abbandonato ormai la meccanica Panhard, si cerca un nuovo partner in Renault, che si occuperà di fornire gli organi meccanici della vettura stessa: il motore era lo stesso dell'allora neonata Renault 8, mentre il cambio fu preso dal furgone Estafette. Il risultato fu la Djet, una vettura presentata alla stampa l'11 luglio 1962 e al pubblico nell'ottobre del 1962 al Salone di Parigi. Fu lo stesso anno in cui fu introdotta anche una delle sue più strette rivali, la Alpine A110.

    Prototipi
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    Nell’estate del 1962, la Matra Djet iniziò la sua carriera sportiva.
    Bonnet s’ispira sicuramente a vetture come la Lotus e l’Alpine, costruite anche loro in vetroresina, vettura dalla carrozzeria leggera e che permettono di utilizzare motori più piccoli, senza per questo essere lente.
    La Matra Djet prevedeva un telaio a trave centrale del peso di soli 17 kg, su cui poi era applicata la carrozzeria in vetroresina. Va detto però che poco prima della Kermesse Parigina, alcune Matra Djet con telaio a traliccio tubolare avevano corso in alcune importanti manifestazioni sportive, peraltro imponendosi all'attenzione del pubblico e della stampa. Il traliccio tubolare si era reso necessario per irrigidiri ulteriormente la vettura, nella zona delle sospensioni.
    Immagini di versioni da gara
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    Per la versione stradale da produrre in serie si scelse la soluzione a trave centrale perché ritenuta meno costosa. Il motore era sistemato in posizione centrale longitudinale, anche questa una vera novità: di fatto, la Djet è stata la prima vettura di serie al mondo con motore centrale.

    Schema meccanico
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    Il motore utilizzato era un normalissimo C1E di origine Renault 8, con una cilindrata di soli 1108 cc e una potenza massima di 70 cv. In alternativa si poteva equipaggiare la vettura con un motore di pari cilindrata, ma in questo caso con testata a camera di scoppio emisferiche ed una potenza di 80 cv.
    La meccanica prevedeva sospensioni a ruote indipendenti su i due assi.
    L'avantreno era a triangoli sovrapposti con molle elicoidali ed ammortizzatori idraulici telescopici, mentre il retrotreno era a quadrilateri sovrapposti con due ammortizzatori idraulici e due molle elicoidali per ruota. L'impianto frenante era a quattro dischi, mentre lo sterzo era a cremagliera. quanto al cambio, esso era derivato dal furgone Estafette, ed era manuale a 4 marce con frizione monodisco a secco.
    Inizialmente la vettura venne commercializzata come René Bonnet Djet, nelle due varianti da 70 o 80 cv, che prendevano quindi il nome di C.R.B 1 o C.R.B 2, in ogni caso acronimo di Coach René Bonne.
    La vettura venne costruita in ben 6 serie, che venivano distinte appunto dal nome eseguito poi dal numero.
    La prima serie è quella che è stata descritta qui sopra, del 1962, con i motori di 1108 cc e con i levelli di potenza di 70 ed 80 cv.

    René Bonnet Djet I
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    Nel 1963 la gamma si espande con l’arrivo della Djet II caratterizzata da un motore da 996 cc, questo motore è elaborato da Gordini e permette di sviluppare ben 82 cv.

    René Bonnet Djet II
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    Poco dopo arrivarono anche le Djet III e IV, equipaggiate da un motore da un litro ed utilizzate solo in campo agonistico. Mentre la Djet III montava lo stesso motore della Djet II, come anche la Djet IV, che però è esistita anche equipaggiata con una variante bialbero in testa del motore della Djet I. In ogni caso, la produzione di Djet III e Djet IV fu limitata a pochi esemplari, tutti impiegati nel mondo delle competizioni. La Djet fu infatti subito introdotta nelle gare su pista, dove riportò anche alcuni successi. Ben presto la piccola Casa francese cominciò ad avere dei problemi finanziari a causa delle scarse vendite della Djet.

    René Bonnet Djet III - IV
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    Nel 1964, la matrà rilevò la ditta e da quel momento le vetture furono vendute come Matra-Bonnet Djet, ed in due versioni: la Djet V e la Djet V S, quest'ultima elaborata sempre da Gordini. Il motore era ancora una volta l'unità da 1.1 litri derivata dalla R8: nella Djet V la potenza era rimasta a 70 CV, mentre nella Djet V S, dotata di testata emisferica, si poteva disporre di 94 CV.

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    Con queste due serie, furono apportate, per la prima volta, delle modifiche alla carrozzeria, per mano del progettista Philippe Guédon. Inoltre la vettura si vide modificare anche strutturalmente, con un coda più lunga per via dell'allungamento dello sbalzo posteriore, una soluzione che aveva lo scopo di aumentare la capacità del piccolo vano bagagli sistemato dietro al motore, la vettura passò così da 3.8 a 4.2 m di lunghezza, per equilibrare la vettura anche la larghezza venne leggermente rivista grazie all'allargamento dei passaruota e della carreggiate. Solo il passo rimase invariato a 2.4 metri. Le modifiche alla carrozzeria consentirono di migliorare l'aerodinamica, già curata fin dall'inizio, e raggiungere un valore di Cx pari a 0,25.
    Al Salone di Parigi del 1965, la Djet perse la numerazione romana delle sue versioni e il nome Bonnet, divenendo Matra Sports Djet 5.

    Matra Sports Djet 5
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    L'anno seguente, inoltre, perse anche la D iniziale, divenendo Jet 5, come nelle iniziali intenzioni di Bonnet.
    Lo stesso anno fu introdotta anche la Jet 6, con motore da 1255 cm³ rivisto ancora una volta da Gordini e con potenza di 105 CV.

    Matra Jet 5 e jet 6
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    La Djet fu tolta di produzione nel 1968, dopo essere stata prodotta complessivamente in 1.691 esemplari, di cui 198 con il marchio René Bonnet: in questa cifra sono inclusi cinque esemplari destinati alle competizioni, tra cui tre della cosiddetta Aerodjet. A questi 198 esemplari vanno aggiunti 16 esemplari di Djet III e Djet IV, anch'essi destinati ad un impiego sportivo.

    Curiosità:
    Una Matra Djet fu venduta al costo di 14.200 franchi al cosmonauta Russo Yuri Gagarin

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  11. .
    Normalmente quando parliamo di Innocenti, subito lo associamo alla Lambretta o alle vetture costruite su licenza del gruppo Inglese BMC come la berlina A40 (copia dell’Austin A40 farina, anche se leggermente rivista), ma soprattutto per la costruzione della piccola Mini.
    Nel 1962 Ferdinando Innocenti all’epoca settantaduenne, vuole allargare la propria gamma cercando di creare una piccola GT di prestigio. Di questa idea ne parlerà con Enzo Ferrari, cui commissionò la costruzione del prototipo che vedrà la luce nel 1963.
    Purtroppo l’idea di Innocenti, è anticipata dall’industriale Ornozo De Nora che nel 1962 allestì una fabbrica in via San Faustino a Milano, proprio accanto agli stabilimenti dell’Innocenti, per costruire le sue ASA.
    Il progetto della nuova vettura, che non prenderà mai il via della produzione in serie, prende il nome di Innocenti 186 GT.
    L’entusiasmo di Innocenti si scontra con due problemi, l’impreparazione della fabbrica a gestire un veicolo di questa classe e la costruzione di una rete commerciale adeguata.
    L’Innocenti GT era dotata di un 6 cilindri a v di 1.787 cc (la metà del 12 cilindri Ferrari) alesaggio per corsa 77x64, distribuzione monoalbero a camme in testa per bancata e due valvole per cilindro, con una potenza di 120 CV a 7.000 giri/min, accoppiato ad un cambio, di derivazione inglese, era a quattro marce più overdrive su III e IV, i freni a disco sulle 4 ruote. Il motore era poi alimentato da tre carburatori doppio corpo. I coperchi delle testata erano simili a quelli utilizzati dalle Ferrari. Il motore comunque non era inedito, ma faceva parte del progetto che poi vedrà la luce sulla Dino Ferrari.
    L’intero progetto vide la luce presso la Ferrari, che seguì tutte le fasi di progettazione e costruzione.
    Per lo studio dell’Innocenti 186 GT, è stato costituito un gruppo di progettazione a Modena, nei locali della vecchia Scuderia, al quale hanno partecipato per la Ferrari: Rocchi (motore), Salvarani (cambio e trasmissioni), Casoli (telaio) e Marmiroli (verifiche di calcolo). Per l’Innocenti il progettista Alessandro Colombo, che aveva la direzione del gruppo, Arienti e Cattaneo. Disegni e prototipi delle parti meccaniche sono stati realizzati in breve tempo e l’autotelaio completo è stato presto consegnato a Bertone per l’esecuzione della carrozzeria, che fu disegnata da Giugiaro, allora stilista della Bertone.
    L’autotelaio del prototipo aveva il classico telaio tubolare Ferrari, con sospensioni anteriori indipendenti a quadrilateri articolati e posteriori a ponte con balestre e puntoni di reazione, le ruote a raggi sono della Borrani e montano pneumatici Pirelli Cinturato da 175 x 14. I freni sono a disco sulle quattro ruote. Le dimensioni di base danno un passo di 2.320 mm, una lunghezza massima di 4.200 mm, una larghezza massima di 1.600 mm ed un’altezza massima di 1.250 mm.
    Furono costruiti due prototipi, il primo, realizzato rapidamente per una presentazione estetica, aveva anche parti di carrozzeria in lega leggera ed è stato l’unico ad aver fatto qualche prova dimostrativa sulla pista interna allo stabilimento.
    Nel frattempo, presso la Bertone, sotto il controllo di Alessandro Colombo e con la collaborazione dei due progettisti Innocenti, sono eseguiti i disegni di una soluzione a scocca portante, molto probabilmente uno dei primi lavori d’industrializzazione di questo tipo fatto presso la Carrozzeria Bertone dalla coppia Giugiaro-Mantovani, e con questa scocca è costruito il secondo esemplare.
    Purtroppo nel 1964, quando ormai tutto è pronto per l’industrializzazione, l’Innocenti decise di abbandonare il progetto, che vide la distruzione del primo prototipo, ma per fortuna il secondo fu accantonato in un capannone Innocenti, per poi essere dimenticata, solo nel 1994, quando si decise lo smantellamento della fabbrica, da parte della nuova proprietaria dei capannoni, la Fiat che l’aveva acquistata con la consociata Maserati dall’industriale Alejandro De Tommaso che aveva acquisito il marchio Innocenti.
    Il momento era particolarmente rischioso, a Milano, oltre alla 186, c’era l’archivio della Biturbo, le cui scocche erano costruite dall’Innocenti, e molta documentazione importante, che rischiava di andare perduta.
    Ermanno Cozza, memoria storica della Casa del Tridente, riuscì a salvare tutto e ad affidare la 186 GT alla Ferrari. Portata in un grande magazzino della Saima di Formigine (da dove partono le Ferrari per tutto il mondo), fu tenuta sotto le ali di Antonio Ghini, ex responsabile del Cavallino e ora direttore dei musei di Maranello e Modena. Dove dal 2015 l’Innocenti 186 GT è la star di una mostra allestita all’interno del Museo Ferrari.

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  12. .
    Una vettura molto particolare costruita da Bertone è sicuramente la NSU Trapeze, presentata al Salone di Parigi dell'Ottobre 1973. Il prototipo è un importante progetto di design, utilizzando il pianale della NSU 80, la vettura, con motore rotativo posto posteriormente in posizione centrale, riesce ad accogliere comodamente 4 passeggeri, mantenendo comunque una linea filante, che può vagamente ricordare la Lancia Stratoso, presentata dallo stesso Bertone un anno prima.
    Come la Stratos ha condiviso un enorme parabrezza avvolgente, piccole finestre laterali e una linea a cuneo. E anche se ci sono certamente somiglianze nella forma generale, la NSU Trapeze era certamente un concetto completamente differente.
    Se la Lancia Stratos presentava una linea sportiva e due posti la NSU Trapeze, presentava una linea sportiva e ben 4 posti, posizionati appunto a trapezio, da cui il nome poi dato alla vettura, i 4 occupanti si trovano nella parte anteriore nella parte più centrale della vettura, mentre gli occupanti posteriori agli angoli più esterni, al centro dei due passeggeri troviamo parte del motore, che posto longitudinalmente, entra in parte all'interno dell'abitacolo.
    Il motore, lo stesso usato dalla NSU 80 ha però 115 cv, forse leggermente depotenziato rispetto alle caratteristiche della vettura. Vettura che comunque non fu mai prodotta.
    La vettura porta inoltre un altro primato, non solo una vettura a quattro posti sportiva con motore centrale, ma anche un grande studio per la protezione degli occupanti interni, ormai le severe norme Americane, stavano iniziando a fare breccia anche in Europa.E la soluzione adottata è quella di mettere i passeggeri il più interno possibile, aumentando lo spazio tra il passeggero e la porta, inoltre il grande paraurti, di colore blu, che girava intorno alla vettura avrebbe dovuto proteggere ulteriormente gli occupanti dagli urti.
    Scenografico lo studio per l'illuminazione anteriore, con ben 6 fari a scomparsa.
    Gl interni erano molto sobri con sedili in velluti blu, che riprendevano il colore del paraurti esterno, mentre la plancia era lineare molto semplice.

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    Sicuramente, ma è anche vero che le misure dei Giapponesi era diversa dalle nostre, oggi sono simili, ma all'epoca l'Europeo era ed è sempre più grosso, io ho avuto una A112, sinceramente ci entravo ma scomodamente
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    La Fiat 132 Flares è un prototipo funzionante di una vettura su base Fiat 132, disegnata da Giovanni Michelotti, presentata la prima volta al Salone di Torino del 1971 e poi al Salone di Ginevra del 1972 con lievi modifiche nel disegno del gruppo ottico posteriore, ora non più a incastro.
    La vettura fa parte di un progetto per lo studio dell’aerodinamica e della sicurezza.
    La Fiat 132 Flares è una classica 2+2, con linea a cuneo, tipica degli anni ’70, costruita intorno al telaio della Fiat 132, da questa mutua il telaio e il motore di 1800 cc da 105 CV, mantiene quindi lo stesso passo, ma per via delle gomme più grandi risulterà leggermente più larga. La corsa degli ammortizzatori è ridotta di 4 cm, il serbatoio è aumentato a 75 litri ed è posto sopra l’asse posteriore, in una zona sicura e protetta in caso di tamponamento. Lo sbalzo posteriore è ridotto di 33 cm, ciò ha comportato lo spostamento della ruota posteriore da orizzontale a verticale, riducendo ulteriormente lo spazio disponibile nel vano, in parte compensato grazie alla possibilità di abbassare i sedili posteriori e ottenere un pianale aggiuntivo. Degno di nota è la disposizione del quadro strumento, con la raccolta di tutti i comandi principali a portata di mano, ottima la qualità percepita grazie ai materiali utilizzati, mancante alla berlina di normale produzione.
    La vettura fa parte di un progetto per lo studio dell’aerodinamica e della sicurezza.

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    www.facebook.com/IRuggentiAnni7080/videos/1105462209463773/
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    Be non a caso la Renault 12, proseguì la sua carriera in Romania, come Dacia 1300, fino al 2004, ne vennero poi estese le sue virtù con modelli non presenti nel mercato Europeo, tra tutti il pick up che proseguì fino al 2006. Diventando l'auto preferita in Romania e dei paesi orientali. Venne anche venduta fuori i confini con il marchio di Dacia Denem.
    Se la linea non era particolarmente interessante, di certo era considerata una vettura comoda, pratica e adatta ad una famiglia, soprattutto con la versione Break.
1684 replies since 31/7/2012
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